Garmin Triennale 22

Simone Moro Mia moglie ha sognato che morivo sul K2. Non ci credo, ma ci andreste?

Beat Yesterday, supera il tuo ieri, vai ogni giorno più avanti. Era questo il senso della serata organizzata da Garmin sulla terrazza della Triennale, mentre un gelido tramonto illuminava Milano. C’era il monumento Alex Zanardi a raccontare come ogni giorno per lui è una sfida più emozionante di ieri “Basta concentrarsi su quel che si ha ancora piuttostco che su quello che si è perso”. C’erano tanti atleti icona nei loro sport sostenuti da Garmin: per il ciclismo Ivan Basso e Davide Cassani, per il traithlon Alessandro Fabian. E poi c’era il re dell’alpinismo fatto di rispetto e fatica. Simone Moro.

Si scopre che abbiamo muscoli anche sul dorso delle mani e tra le dita quando si osservano le sue. «A forza di aggrapparmi alla roccia…», glissa l’alpinista italiano 49enne. È l’unico al mondo ad aver conquistato quattro montagne oltre gli Ottomila metri in pieno inverno. L’ultimo, il gigante Nanga Parbat, lo scorso inverno, dopo aver anche rinunciato la stagione precedente, quando non vi erano le condizioni necessarie.

Simone si può amare la sfida ma anche sapersi fermare. Per rispetto della montagna?

«Prima di rispettare la montagna devo imparare a rispettare me stesso. Perché quando non rispetti la tua vita in montagna non rispetti te prima che la montagna. Il passaggio è chiave. Rispetti anche il fatto che ci possono essere sei giorni in cui non stai bene o ti sei svegliato tardi, o non sei con il compagno giusto. Tutte caratteristiche che riguardano l’individuo più che la montagna, già lì dovresti aver un piano A, B e C, tra cui girare i tacchi e andar a casa. Io non sono di quelli che vuole i divieti in montagna, le ordinanze comunali; è una follia. Non siamo in autostrada, un ambiente nato in funzione dell uomo. La montagna ha dinamiche tutte sue, da conoscere, regole base che cominciano a non essere più così ovvie. Guardare il bollettino della neve non è da sfigati. Seconda cosa mai andar da soli. Ma soprattutto, ribadisco, avere almeno il piano A e B. Vado a fare una gita, non ci sono le condizioni non dico: “Eh ma ormai che sono qui, non verrà giù ora, non sarò così sfigato”…e poi è la volta che ci lasci la pelle.

E allora ecco il piano B: ggi non vado in fuoripista, vado con le racchette, oppur vado in altro versante, oppure vado a correre. Ho un sacco di alternative. Farsi un giro su un versante piuttosto che un altro non è che in uno ti diverti e l’ altro è merda, non è che camminare è schifo…»

Detto da uno che cambia la programmazione di un intero inverno…

«Hai voglia. Io sono tornato indietro per salvare la pelle»

Non è che ci viene resa troppo facile la montagna, troppi impianti che arrivano troppo in alto, troppo dappertutto?

«Ma la colpa non è dell’attrezzo è sempre dell’ individuo. Se ti dico: “Guarda che attraversare l Oceano in barca a vela è una figata”, non è che pigli e vai, te la fai sotto. Si prende la montagna come una protuberanza di cinque giorni lavorativi, anche lì c’ è una gara, qualcosa da dimostrare. In più, altra cosa importante, farsi insegnare non è da sfigati. Andare con una guida, con un esperto, con una guida alpina o col Cai, è bello! Io sono una guida, dovrei odiare quelli del Cai. Pirlate! Siamo tutti amanti della montagna che, chi per hobby chi per professione, cerchiamo di rendere contagioso questo amore. Partire da un filtro di qualcuno che ti insegna la cultura della montagna, quello è un bell’ investimento per la vita».

Per un investimento sulla vita ha rimosso l’ idea di completare gli 8000 d’ inverno, con il K 2 dopo il Nanga Parbat l anno scorso?

«Sì, l ho rimosso per colpa, o merito, di mia moglie. Lei mi ha espressamente detto di non farlo. Un sacco di fan mi scrivono: “Adesso! Simone, è tutto il K2!.” Ma mia moglie ha fatto un sogno molto chiaro. In realtà era vigile, sveglia, a casa, ha iniziato a sudare, sudare e ha visto chiaramente che morivo sul K2. Ora, magari non ci credo, ma tu ci andresti? Non sono superstizioso ma posso anche permettermi di non provarlo nemmeno. Non ho nulla da dimostare né a me stesso e nemmeno alla storia dell alpinismo. Chiunque farà il K2 in invernale non sarà uno che prima ha fatto altri quattro Ottomila in inverno».

Che cosa dimostrano oggi queste imprese?

Che c è ancora spazio per l’ esplorazione. E tu dici e a che cosa serve esplorare? Ti rispondo: scalare una montagna d’ inverno può esser apparentemente inutile. Ma allora anche studiare medicina oggi con tutti i bravi medici che ci sono. Ma chi troverà la cura del cancro non sarà un bravo medico e punto. Sarà un esploratore della medicina, che vuole entrare nell’ ignoto. Ed è esattamente la stessa pulsione che spinge me ad andare sugli 8000 d’ inverno, senza ossigeno, senza portatori. Piuttosto che andarci su una strada già asfaltata, già battuta da altri. Solo che lì su devi calcolare che ogni tre passi devi fermarti un minuto per respirare. E in cima hai fatto solo la metà, la tua mezza maratona. Devi avere altrettante energie per scendere. E mica puoi cominciare la discesa mentre fa buio a meno 50 gradi»

È una esplorazione anche dentro se stessi. Che cosa hai imparato?

«Ho imparato che il limite esiste soprattutto nella tua testa, i limiti sono dentro di noi, e ce li creiamo per trovare una scusa per non far qualcosa. Attenzione, di che limite stiamo parlando però! Vivere una vita sregolata, di azzardi, fa campar poco. Alla parola limite affianco sempre quella di rispetto, di te stesso».

Ma quando si torna da spedizioni di mesi in montagna, nella vita metropolitana ci si sente un pesce fuor d’ acqua?

«Io scalo le montagne perché mi rende felice e la prima cosa che noto quando torno è che torno in un mondo triste. Che sorride fuori, ma solo con l’espressione del volto. Appena atterro in aeroporto dico, “ma qui son tutti incazzati!”. Secondo mer è perché abbiamo perso il contatto col mondo da cui veniamo. Adesso siamo in un palazzo, poi prendiamo in ascensore, andiamo in macchina, a casa entriamo dal garage…tutto indoor, senza mai guardarsi intorno, respirare la luce, le nuvole, il tramonto. Viviamo In un mondo stanziale, creato solo per produrre. Ma veniamo da là fuori e la natura non chiede niente, dà soltanto. L uomo invece chiede solo e non dà un cazzo. Per star bene basta stare un pochino più fuori. Poi io ho imparato anche che ciò che consideriamo ovvietà non lo è fatto. Un bicchier d1 acqua per esempio. Non abbandonerò mai mezza bottiglia d’ acqua non finita all’ autogrill. Ne impari il valore quando per bere devi produrtela sciogliendo il ghiaccio e quel che ottieni è acqua distillata, quella che usiamo per il ferro da stiro: cazzo, allora se capisci il valore di un bicchier d’ acqua. E quando fai la doccia allora sai che basta impiegarci due minuti, quando ti lavi i denti chiudi il rubinetto. Ma impari che è importante anche il calore di un camino l’ abbraccio di tuo figlio, due chiacchiere con un amico.

Che età hanno i tuoi figli?

«Martina 18, Jonas 7. Quasi»

Pensi a loro in bivacco al gelo?

«Io quando sono in quei posti lí, dico sempre, è perché lo voglio. E quanti di noi le difficoltà in cui si trovano se le sono volute. Non sono schizofrenico, ogni volta me lo ricordo. “Simone sei qui perché lo hai voluto ed è il tuo sogno».

Ma ci sarà un peluche dell’ anima per superare i momenti più bui?

«Sono anche una persona che crede, quindi in montagna vedo costantemente la mano del grande architetto. Già scalare è una forma di preghiera, la montagna mi ha anche regalato la rivalutazione profonda della nostra parte spirituale. Per qualcuno può essere religiosa, per altri contemplativa, introspettiva. Ma capisci che abbiamo anche questa fame che raramente soddisfiamo. Per qualcuno a soddisfarla basta la musca new age, ad altri serve fermarsi a guardare un tramonto. Ma la preghiera per me non è solo il rituale della frase detta. Questa ascoltare la propria parte spirituale è qualcosa che mi aiuta. In più io sono uno che soffre tanto il freddo o la fatica, quindi non è mai capitato che io abbia detto : “Chi me lo ha fatto fare”».

Però si è trovato in pericolo di vita?

«Più di una volta».

Nel 1997 ha visto morire due compagni di spedizione sotto ad una valanga.

«Sono l’unico tornato vivo da quella spedizione».

Come si riemerge da un’ esperienza così?

«Io ho fatto una riflessione. Ho fatto 54 spedizioni. In 49 anni. Ogni spedizione dura tre mesi: sono 170 mesi, 15 anni. Vuol dire che per 15 anni sono stato nei posti più pericolosi della terra, nei posti più freddi. E mi è capitata una volta sola quella roba qui. È quasi allora un’incidenza fisiologica. Prova a guidare 15 anni, 24 ore su 24 sulle nostre strade. Tu pensi che prima o poi non lo fai un incidente mortale? Non sono l’ unico che vede o ha visto la morte in faccia. Quando accade, certo, capisci che è un film che ci vedrà tutti attori e protagonisti».

Che cosa insegna questa consapevolezza?

«A vivere molto intensamente il quotidiano. Io per lo più ho obiettivi a medio termine, vicini nel tempo, per vivere bene giorno per giorno. L’unico che ho a largo raggio è di diventare un giorno un bravo, e vecchio, alpinista. Non solo bravo. Anche vecchio. Però mi godo tanto il quotidiano e ogni cosa che vivo la vivo nella sua pienezza. Perché mentre io e te parliamo, domani dove cazzo siamo?».

I tuoi figli ti hanno mai detto: Papà, stavolta non andare?

«No, mai. Io mi ricordo che quando a mia figlia a scuola hanno fatto fare il disegno “Il mio papà”, ha disegnato una grande montagna, in cima un omino arancione che è il colore della mia tuta da alta quota, e poi ha scritto: “Mio papà scala montagne perché è felice e mi rende felice”. Allora ho capito di essere riuscito a trovare un compromesso, perché sempre di compromesso si tratta, come per tutti. La tecnologia mi aiuta tanto. In spedizione quasi tutti i giorni mi vedo con loro, via Skype. Cerco di non abusarne della tecnologia… in più sono orgoglioso di insegnare ai miei figli a rinunciare. Quelle volte che papà è tornato a casa, per esempio, perché ha capito che altrimenti non sarebbe più tornato. Voglio che apprendano che per essere un grande vincente devi essere prima un grande perdente. Se vinci sempre, la prima volta che perdi non sai come gestirlo, la vivi come un fallimento, è un dramma».

Prossima sfida?

«Primavera 2017, questo è il primo inverno che sto a casa. Voglio davvero godermi l inverno sulle Alpi. Perché si chiama Alpinismo, mica Andismo, vuol dire che sono le nostre le montagne più belle del mondo!»